27/10/2017
La manovra rischia di «appannare» la certezza del diritto
Le misure tributarie annunciate dal disegno di legge di bilancio 2018 non fanno altro che confermare che la più volte reclamata certezza del diritto appare mistificatoria.
Il diritto, per sua natura, non può che risultare incerto. Dietro il diritto c’è il potere, e quest’ultimo risulta (tutto sommato, per fortuna) mutevole, così che quando muta, il nuovo potere provvede a fissare le sue leggi, che vanno quasi sempre a disattendere quelle predisposte dal potere precedente. Così che il diritto non risulta altro che una tregua tra i conflitti del potere. Su un aspetto, tuttavia, i vari “poteri” concordano: quello di usare la leva fiscale, in barba a qualsiasi basilare garanzia per i contribuenti (che più che la certezza dovrebbero reclamare la “sicurezza del diritto”), per recuperare entrate.
Si assiste da tempo, quindi, a un imbarbarimento del diritto tributario, il quale non ha più una sua identità, essendo le misure tributarie volte essenzialmente al gettito. A questa degenerazione non sembra sfuggire, quindi, la bozza di disegno di legge di bilancio 2018, la quale provvede, accanto a misure annunciate e prevedibili (vedi il solito affrancamento del valore dei terreni e delle partecipazioni) ad alimentare la perdita di credibilità del sistema, che risulta, indirettamente, una eccezionale leva che accresce l’evasione.
Si pensi all’Iri, introdotta per agevolare le piccole imprese “virtuose”. La bozza di disegno di legge vorrebbe spostare di un anno l’entrata in vigore del nuovo regime, dopo che molti si sono già posti nelle condizioni per fruirne. L’aberrante scenario porta anche a pensare che, trattandosi di un disegno di legge e quindi, sostanzialmente, di una “norma annuncio”, la stessa abbia soprattutto la finalità di evitare che i contribuenti che già si sono già messi nelle condizioni di fruire del nuovo regime non versino gli acconti Irpef del prossimo novembre, e che poi, magari, il differimento al 2018 non venga confermato.
Un altro sospetto viene dalla misura (cancellata nell’ultima bozza) che disponeva l’applicazione del termine lungo decennale di prescrizione per le cartelle, con disposizione interpretativa e, quindi retroattiva, nonostante l’intervento delle Sezioni unite della Cassazione. Una misura che avrebbe prorobabilmente favorito la riapertura della rottamazione anche per i carichi precedenti al 1° gennaio 2017.
In sostanza, queste misure non fanno altro che confermare la “doppiezza”, la precarietà, la continua perdita di credibilità del sistema tributario.
Per assurdo, anche la stessa vicenda dell’articolo 20 del Dpr 131/1986 sull’imposta di registro, che vorrebbe risultare una norma di favore per i contribuenti, va ad incanalarsi nella scia della precarietà del diritto tributario. La norma proposta vorrebbe evitare le cosiddette “riqualificazioni” sotto un profilo economico, più volte (erroneamente) avvalorate dalla Corte di cassazione, degli atti giuridici. Il fatto è che la norma proposta si rivolge soltanto alle sequenze negoziali e non all’atto singolo, e ciò non appare coerente.
Poi accade che sta girando sotto traccia una relazione a questa norma in cui si vorrebbe dire che il cosiddetto “spezzatino”, cioè il frazionamento (dis)simulato dell’azienda, costituirebbe abuso del diritto, mentre, ovviamente, si tratta di ipotesi di evasione. Questo significherebbe rendere vano, soprattutto su altri comparti impositivi, tutto quanto ha voluto stabilire il decreto cosiddetto “certezza del diritto” del 2015. Forse, però, è solo per confermare che la certezza del diritto è unicamente mito, leggenda.
Dario Deotto
© Riproduzione riserva
Il diritto, per sua natura, non può che risultare incerto. Dietro il diritto c’è il potere, e quest’ultimo risulta (tutto sommato, per fortuna) mutevole, così che quando muta, il nuovo potere provvede a fissare le sue leggi, che vanno quasi sempre a disattendere quelle predisposte dal potere precedente. Così che il diritto non risulta altro che una tregua tra i conflitti del potere. Su un aspetto, tuttavia, i vari “poteri” concordano: quello di usare la leva fiscale, in barba a qualsiasi basilare garanzia per i contribuenti (che più che la certezza dovrebbero reclamare la “sicurezza del diritto”), per recuperare entrate.
Si assiste da tempo, quindi, a un imbarbarimento del diritto tributario, il quale non ha più una sua identità, essendo le misure tributarie volte essenzialmente al gettito. A questa degenerazione non sembra sfuggire, quindi, la bozza di disegno di legge di bilancio 2018, la quale provvede, accanto a misure annunciate e prevedibili (vedi il solito affrancamento del valore dei terreni e delle partecipazioni) ad alimentare la perdita di credibilità del sistema, che risulta, indirettamente, una eccezionale leva che accresce l’evasione.
Si pensi all’Iri, introdotta per agevolare le piccole imprese “virtuose”. La bozza di disegno di legge vorrebbe spostare di un anno l’entrata in vigore del nuovo regime, dopo che molti si sono già posti nelle condizioni per fruirne. L’aberrante scenario porta anche a pensare che, trattandosi di un disegno di legge e quindi, sostanzialmente, di una “norma annuncio”, la stessa abbia soprattutto la finalità di evitare che i contribuenti che già si sono già messi nelle condizioni di fruire del nuovo regime non versino gli acconti Irpef del prossimo novembre, e che poi, magari, il differimento al 2018 non venga confermato.
Un altro sospetto viene dalla misura (cancellata nell’ultima bozza) che disponeva l’applicazione del termine lungo decennale di prescrizione per le cartelle, con disposizione interpretativa e, quindi retroattiva, nonostante l’intervento delle Sezioni unite della Cassazione. Una misura che avrebbe prorobabilmente favorito la riapertura della rottamazione anche per i carichi precedenti al 1° gennaio 2017.
In sostanza, queste misure non fanno altro che confermare la “doppiezza”, la precarietà, la continua perdita di credibilità del sistema tributario.
Per assurdo, anche la stessa vicenda dell’articolo 20 del Dpr 131/1986 sull’imposta di registro, che vorrebbe risultare una norma di favore per i contribuenti, va ad incanalarsi nella scia della precarietà del diritto tributario. La norma proposta vorrebbe evitare le cosiddette “riqualificazioni” sotto un profilo economico, più volte (erroneamente) avvalorate dalla Corte di cassazione, degli atti giuridici. Il fatto è che la norma proposta si rivolge soltanto alle sequenze negoziali e non all’atto singolo, e ciò non appare coerente.
Poi accade che sta girando sotto traccia una relazione a questa norma in cui si vorrebbe dire che il cosiddetto “spezzatino”, cioè il frazionamento (dis)simulato dell’azienda, costituirebbe abuso del diritto, mentre, ovviamente, si tratta di ipotesi di evasione. Questo significherebbe rendere vano, soprattutto su altri comparti impositivi, tutto quanto ha voluto stabilire il decreto cosiddetto “certezza del diritto” del 2015. Forse, però, è solo per confermare che la certezza del diritto è unicamente mito, leggenda.
Dario Deotto
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