18/11/2019
Tre vie (più una) per tassare il digitale
La questione della tassazione della digitalizzazione dell’economia – considerato che la digitalizzazione influenza sempre più l’economia, è più corretto parlare di “digitalizzazione dell’economia” e non di “economia digitale” – dovrebbe determinare un ripensamento dei modelli impositivi. Così da dare rilevanza alle manifestazioni di ricchezza che derivano dalla robotica, dalle varie forme di intelligenza artificiale, dagli investimenti immateriali in genere. A livello globale, peraltro, vi è una generale sottostima degli investimenti in beni immateriali, posto che tali tipi di investimenti sono spesso contabilizzati tra le spese correnti (Haskel e Westlake).
In sostanza, le attività delle imprese sono divenute globali, digitali e (prevalentemente) immateriali, mentre i sistemi fiscali basati sulla tassazione dei redditi societari sono rimasti quelli progettati generalmente negli anni 50 del secolo scorso: in questo senso si è espressa anche Assonime nel documento 6/2019 sulla tassazione d’impresa ed economia digitale. Lo stesso documento individua tre nuovi possibili modelli di tassazione dei “risultati” societari proprio al fine di tenere conto dell’internalizzazione, della digitalizzazione e della prevalenza dei beni immateriali nell’attivo delle imprese:
1. una prima ipotesi potrebbe essere ancorare la tassazione del reddito d’impresa unicamente all’utile dell’esercizio, senza alcuna variazione fiscale;
2. una seconda soluzione prospettata è quella della cash flow tax, che tasserebbe le risorse finanziarie che scorrono nelle casse delle imprese;
3. la terza possibilità sarebbe quella di una tassazione presuntiva delle imprese, tenendo conto anche degli asset immateriali.
Si è dell’avviso, comunque, che intelligenze artificiali, robot, cloud, varie tecnologie digitali possono esprimere delle (nuove) manifestazioni di ricchezza, come quella derivante dal dominio del dato o comunque delle informazioni, difficilmente misurabile – questo dominio – attraverso i parametri tradizionali di reddito o ricavo.
Tralasciando avveniristiche (e immotivate) forme di tassazione o di soggettività tributaria dei robot intelligenti (la cosiddetta robot tax), si rileva che certamente l’Italia può fornire dei (creativi?) “contributi” circa l’individuazione di manifestazioni di capacità contributiva diverse dal reddito o dai ricavi. Paradigmatica in questo senso risulta l’Irap. Spesso si dimentica che l’Irap colpisce (dovrebbe colpire), perlomeno secondo gli ideatori dell’imposta, una sorta di dominio sui fattori della produzione: l’idea di fondo sarebbe che l’organizzazione si risolverebbe, per il suo dominus, nella disponibilità di beni e servizi economicamente valutabili.
Ebbene, considerato che le intelligenze artificiali hanno conseguenze sull’attività lavorativa dell’uomo (possibile contrazione dei lavoratori ma anche – lo si sottolinea – nuove prospettive di lavoro), si potrebbe pensare di individuare una sorta di valore della produzione derivante dalle intelligenze artificiali che in qualche modo vada a colpire la riduzione delle spese del personale che si realizza per effetto degli investimenti tecnologici. Una sorta di tassazione del dominio della tecnica sull’attività umana.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
D.D.
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