23/04/2018
Bitcoin in RW, il bivio della «chiave»
Avvicinandosi la stagione dichiarativa, uno dei temi più controversi è l’indicazione nel quadro RW delle criptovalute. È di pochi giorni fa l’interpello (n. 956-39/2018) con cui le Entrate hanno affermato che le criptovalute «devono essere oggetto di comunicazione attraverso il quadro RW». Secondo l’Agenzia, il dato va indicato alla colonna 3 («codice individuazione bene») con il «14» («Altre attività estere di natura finanziaria»). Il controvalore in euro della valuta virtuale, invece, va determinato al 31 dicembre del periodo di riferimento, al cambio indicato a tale data sul sito dove il contribuente l’ha acquistata.
La risposta delle Entrate, però, non convince. Occorre partire dal fatto che, in base a quanto dispone l’articolo 4 del Dl 167/1990, il quadro RW del modello dichiarativo va compilato in caso di detenzione nel periodo d’imposta di «investimenti all’estero ovvero di attività estere di natura finanziaria suscettibili di produrre redditi imponibili in Italia».
La «chiave» esclude l’obbligo
Se, in qualche modo, rispetto alle norme sul monitoraggio fiscale, le criptovalute possono essere considerate – sotto il profilo oggettivo, attività di natura finanziaria – la questione va vista sotto il profilo territoriale, considerando che si deve trattare di «attività estere». Le criptovalute, infatti, sono a-territoriali, non stanno né in Italia né all’estero. Si può dire, in termini semplicistici, ma comunque fattuali, che le criptovalute stanno nella “rete” (di fatto, nella blockchain), per la quale non esiste né un concetto di “estero” né di territorio nazionale.
Si consideri ulteriormente la questione sotto il profilo sanzionatorio. La norma (articolo 5 del Dl 167/1990) stabilisce che la violazione dell’obbligo dichiarativo è punita con la sanzione dal 3 al 15% degli importi non indicati, penalità raddoppiata nel caso le attività siano detenute nei Paesi black list. Certamente si può sostenere che l’entità ordinaria della sanzione risulta quella dal 3 al 15% e che il “raddoppio” della stessa opera esclusivamente, come deroga, nella particolare ipotesi di detenzione delle attività nei Paesi a fiscalità privilegiata. Con la conseguenza che, non potendosi individuare la detenzione delle criptovalute – posta la loro a-territorialità – nei Paesi a fiscalità privilegiata (con l’ulteriore conseguenza dell’inapplicabilità della presunzione di cui all’articolo 12 del Dl 78/2009), si applicherebbe comunque, in caso di omessa indicazione dei coin, la penalità ordinaria dal 3 al 15% del valore non indicato (si tralascia la problematica della loro quantificazione).
Ma è evidente che si tratta, in ogni caso, di una conclusione forzata, posto che l’aspetto sanzionatorio risulta “naturalmente” collegato all’ubicazione territoriale delle attività, le quali devono risultare detenute all’estero, mentre le criptovalute, come si è detto, nella maggioranza dei casi non possono essere ritenute tali.
Si può così giungere alla conclusione che l’obbligo di indicazione nel quadro RW non sussista ogni qualvolta la persona fisica abbia la disponibilità della chiave privata, che rappresenta il “mezzo” attraverso il quale la stessa persona manifesta la volontà di disporre delle criptovalute.
«Custodi» esteri e RW
Diverso potrebbe essere solo il caso in cui il contribuente residente non abbia la disponibilità della chiave privata e si avvalga dei cosiddetti custodial wallet. Occorre premettere che, diversamente da altre disposizioni del Dl 167/1990 in cui vengono richiamate talune norme in materia di antiriciclaggio (si pensi al richiamo ai cosiddetti exchanger di cui all’articolo 3, comma 5, lettera i, del Dlgs 231/2007, contenuto nell’articolo 1 del decreto sul monitoraggio fiscale), la norma esclude dall’obbligo dichiarativo del quadro RW le attività detenute all’estero qualora i redditi derivanti da tali attività vengano assoggettati a ritenuta o a imposta sostitutiva da parte di intermediari residenti. Cosa che, evidentemente, non avviene per le criptovalute.
Dal che se ne deduce che l’indicazione nel quadro RW può sussistere solo per le criptovalute per le quali le chiavi private sono gestite dal custodial wallet, se quest’ultimo risulta soggetto residente o domiciliato all’estero. L’indicazione non avrebbe senso, invece, per le criptovalute gestite attraverso custodial residenti in Italia, venendo a mancare ogni legame con l’estero (anche considerando il prossimo obbligo di iscrizione presso l’Oam dei soggetti operanti in criptovalute).
In definitiva, finché la questione non verrà regolata normativamente, sono queste le soluzioni che paiono più appropriate, nonostante il parere contrario delle Entrate.
L’indicazione senza Paese
Peraltro, la risposta all’interpello non affronta il problema dell’indicazione nel quadro RW del Paese estero. Risulterebbe un ossimoro, una sorta di “asset apolide”, la compilazione del quadro RW senza l’indicazione dello Stato estero.
L’esclusione dall’Ivafe
Da ultimo, va rilevato che la risposta all’interpello afferma che la detenzione delle valute virtuali non è soggetta all’Ivafe, in quanto tale imposta va applicata soltanto ai depositi e conti correnti di “natura bancaria”.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Stefano Capaccioli
Dario Deotto
La risposta delle Entrate, però, non convince. Occorre partire dal fatto che, in base a quanto dispone l’articolo 4 del Dl 167/1990, il quadro RW del modello dichiarativo va compilato in caso di detenzione nel periodo d’imposta di «investimenti all’estero ovvero di attività estere di natura finanziaria suscettibili di produrre redditi imponibili in Italia».
La «chiave» esclude l’obbligo
Se, in qualche modo, rispetto alle norme sul monitoraggio fiscale, le criptovalute possono essere considerate – sotto il profilo oggettivo, attività di natura finanziaria – la questione va vista sotto il profilo territoriale, considerando che si deve trattare di «attività estere». Le criptovalute, infatti, sono a-territoriali, non stanno né in Italia né all’estero. Si può dire, in termini semplicistici, ma comunque fattuali, che le criptovalute stanno nella “rete” (di fatto, nella blockchain), per la quale non esiste né un concetto di “estero” né di territorio nazionale.
Si consideri ulteriormente la questione sotto il profilo sanzionatorio. La norma (articolo 5 del Dl 167/1990) stabilisce che la violazione dell’obbligo dichiarativo è punita con la sanzione dal 3 al 15% degli importi non indicati, penalità raddoppiata nel caso le attività siano detenute nei Paesi black list. Certamente si può sostenere che l’entità ordinaria della sanzione risulta quella dal 3 al 15% e che il “raddoppio” della stessa opera esclusivamente, come deroga, nella particolare ipotesi di detenzione delle attività nei Paesi a fiscalità privilegiata. Con la conseguenza che, non potendosi individuare la detenzione delle criptovalute – posta la loro a-territorialità – nei Paesi a fiscalità privilegiata (con l’ulteriore conseguenza dell’inapplicabilità della presunzione di cui all’articolo 12 del Dl 78/2009), si applicherebbe comunque, in caso di omessa indicazione dei coin, la penalità ordinaria dal 3 al 15% del valore non indicato (si tralascia la problematica della loro quantificazione).
Ma è evidente che si tratta, in ogni caso, di una conclusione forzata, posto che l’aspetto sanzionatorio risulta “naturalmente” collegato all’ubicazione territoriale delle attività, le quali devono risultare detenute all’estero, mentre le criptovalute, come si è detto, nella maggioranza dei casi non possono essere ritenute tali.
Si può così giungere alla conclusione che l’obbligo di indicazione nel quadro RW non sussista ogni qualvolta la persona fisica abbia la disponibilità della chiave privata, che rappresenta il “mezzo” attraverso il quale la stessa persona manifesta la volontà di disporre delle criptovalute.
«Custodi» esteri e RW
Diverso potrebbe essere solo il caso in cui il contribuente residente non abbia la disponibilità della chiave privata e si avvalga dei cosiddetti custodial wallet. Occorre premettere che, diversamente da altre disposizioni del Dl 167/1990 in cui vengono richiamate talune norme in materia di antiriciclaggio (si pensi al richiamo ai cosiddetti exchanger di cui all’articolo 3, comma 5, lettera i, del Dlgs 231/2007, contenuto nell’articolo 1 del decreto sul monitoraggio fiscale), la norma esclude dall’obbligo dichiarativo del quadro RW le attività detenute all’estero qualora i redditi derivanti da tali attività vengano assoggettati a ritenuta o a imposta sostitutiva da parte di intermediari residenti. Cosa che, evidentemente, non avviene per le criptovalute.
Dal che se ne deduce che l’indicazione nel quadro RW può sussistere solo per le criptovalute per le quali le chiavi private sono gestite dal custodial wallet, se quest’ultimo risulta soggetto residente o domiciliato all’estero. L’indicazione non avrebbe senso, invece, per le criptovalute gestite attraverso custodial residenti in Italia, venendo a mancare ogni legame con l’estero (anche considerando il prossimo obbligo di iscrizione presso l’Oam dei soggetti operanti in criptovalute).
In definitiva, finché la questione non verrà regolata normativamente, sono queste le soluzioni che paiono più appropriate, nonostante il parere contrario delle Entrate.
L’indicazione senza Paese
Peraltro, la risposta all’interpello non affronta il problema dell’indicazione nel quadro RW del Paese estero. Risulterebbe un ossimoro, una sorta di “asset apolide”, la compilazione del quadro RW senza l’indicazione dello Stato estero.
L’esclusione dall’Ivafe
Da ultimo, va rilevato che la risposta all’interpello afferma che la detenzione delle valute virtuali non è soggetta all’Ivafe, in quanto tale imposta va applicata soltanto ai depositi e conti correnti di “natura bancaria”.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Stefano Capaccioli
Dario Deotto