08/06/2018
Se l’onere della prova rappresenta un falso problema
In questi giorni si sente spesso parlare di “inversione dell'onere della prova” per le vicende tributarie. Al riguardo, onde evitare fraintendimenti, è opportuno chiarire alcune cose.
Inizialmente, è vero, era stato affermato che l'onere della prova gravasse sempre sul contribuente. Questo per una ipotetica “presunzione di legittimità dell'atto amministrativo”. Tale indirizzo, tuttavia, è stato progressivamente abbandonato, a partire da alcune sentenze della Cassazione del 1979 (tra tutte, la 2990/79).
Così anche nel rapporto tributario deve valere la regola generale dell'onere della prova dettata dall'articolo 2697 del Codice civile, in base al quale «chi vuol fare valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento». Questo significa, nelle vicende tributarie, che l'amministrazione finanziaria che vanta un credito nei confronti del contribuente è tenuta a fornire la prova dei fatti costitutivi della propria pretesa (ex multis, Cassazione 955/2016). In sostanza, l'onere della prova grava ordinariamente sempre sull'amministrazione finanziaria. D'altronde, come diceva il prof. Allorio, la presenza di talune presunzioni legali nell'ordinamento tributario - che invertono l'ordinaria regola dell'incombenza dell'onere probatorio, addossandolo sul contribuente - non fa altro che confermare il principio che l'onere di prova grava, come regola, sugli uffici dell'amministrazione.
Ovviamente, sempre sulla base della regola dell'articolo 2697, l'onere della prova grava sul contribuente nelle liti di rimborso del tributo, sia a seguito di rifiuto espresso che di rifiuto tacito dell'amministrazione.
Si è fatto cenno alle presunzioni legali. Queste ultime, quando risultano relative (in linea di principio, nel rapporto tributario, le presunzioni legali assolute - che non danno possibilità di fornire la prova contraria - sarebbero vietate), invertono l'onere della prova, trasferendolo sul contribuente. Esempi di presunzioni legali tributarie possono essere quella delle società di comodo o del fenomeno della cosiddetta “esterovestizione”. Tuttavia, molte volte vengono considerate presunzioni legali situazioni che non lo sono affatto. Un esempio eclatante è quello delle indagini finanziarie, dove la norma fissa semplicemente l'acquisizione di dati fiscalmente rilevanti da canalizzare, eventualmente, in un atto di rettifica vero e proprio. Il fatto è che, fino ad ora, è stato poco contrastato quell'indirizzo giurisprudenziale che ha fatto impropriamente ritenere l'esistenza di “accertamenti bancari” e non di semplici indagini finanziarie che possono essere tramutate in un atto impositivo, seguendo però i dettati delle specifiche norme. Per gli imprenditori, ad esempio, la norma è quella dell'articolo 39 del Dpr 600/1973 dove, tuttavia, non si rinviene alcuna presunzione legale. Se le norme si interpretassero correttamente, non vi sono poi così tante situazioni nelle quali l'onere della prova viene fatto gravare sul contribuente.
In tutti gli accertamenti presuntivi, infatti, dove non viene disciplinata espressamente una presunzione legale, l'onere della prova torna a gravare sull'amministrazione finanziaria. Si tratta delle presunzioni cosiddette “semplici” (articolo 2729 del Codice civile), fondate su elementi gravi, precisi e concordanti (ci sono anche le presunzioni cosiddette “semplicissime”, ma riguardano casi eclatanti di violazioni, tipo la mancata tenuta delle scritture contabili). In sostanza, per la presunzione semplice, l'inferenza sulla quale la stessa si fonda deve essere provata in giudizio ed il relativo onere grava su colui che intende trarne vantaggio (l'Agenzia), il quale ha, quindi, l'onere di dimostrare che il nesso inferenziale tra fatto noto e fatto ignorato riveste i caratteri di gravità, precisione e concordanza. In pratica, si torna alla regola ordinaria del rapporto tributario, secondo la quale l'onere probatorio dei fatti costitutivi posti a fondamento della pretesa incombe sull'agenzia delle Entrate.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Dario Deotto
Inizialmente, è vero, era stato affermato che l'onere della prova gravasse sempre sul contribuente. Questo per una ipotetica “presunzione di legittimità dell'atto amministrativo”. Tale indirizzo, tuttavia, è stato progressivamente abbandonato, a partire da alcune sentenze della Cassazione del 1979 (tra tutte, la 2990/79).
Così anche nel rapporto tributario deve valere la regola generale dell'onere della prova dettata dall'articolo 2697 del Codice civile, in base al quale «chi vuol fare valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento». Questo significa, nelle vicende tributarie, che l'amministrazione finanziaria che vanta un credito nei confronti del contribuente è tenuta a fornire la prova dei fatti costitutivi della propria pretesa (ex multis, Cassazione 955/2016). In sostanza, l'onere della prova grava ordinariamente sempre sull'amministrazione finanziaria. D'altronde, come diceva il prof. Allorio, la presenza di talune presunzioni legali nell'ordinamento tributario - che invertono l'ordinaria regola dell'incombenza dell'onere probatorio, addossandolo sul contribuente - non fa altro che confermare il principio che l'onere di prova grava, come regola, sugli uffici dell'amministrazione.
Ovviamente, sempre sulla base della regola dell'articolo 2697, l'onere della prova grava sul contribuente nelle liti di rimborso del tributo, sia a seguito di rifiuto espresso che di rifiuto tacito dell'amministrazione.
Si è fatto cenno alle presunzioni legali. Queste ultime, quando risultano relative (in linea di principio, nel rapporto tributario, le presunzioni legali assolute - che non danno possibilità di fornire la prova contraria - sarebbero vietate), invertono l'onere della prova, trasferendolo sul contribuente. Esempi di presunzioni legali tributarie possono essere quella delle società di comodo o del fenomeno della cosiddetta “esterovestizione”. Tuttavia, molte volte vengono considerate presunzioni legali situazioni che non lo sono affatto. Un esempio eclatante è quello delle indagini finanziarie, dove la norma fissa semplicemente l'acquisizione di dati fiscalmente rilevanti da canalizzare, eventualmente, in un atto di rettifica vero e proprio. Il fatto è che, fino ad ora, è stato poco contrastato quell'indirizzo giurisprudenziale che ha fatto impropriamente ritenere l'esistenza di “accertamenti bancari” e non di semplici indagini finanziarie che possono essere tramutate in un atto impositivo, seguendo però i dettati delle specifiche norme. Per gli imprenditori, ad esempio, la norma è quella dell'articolo 39 del Dpr 600/1973 dove, tuttavia, non si rinviene alcuna presunzione legale. Se le norme si interpretassero correttamente, non vi sono poi così tante situazioni nelle quali l'onere della prova viene fatto gravare sul contribuente.
In tutti gli accertamenti presuntivi, infatti, dove non viene disciplinata espressamente una presunzione legale, l'onere della prova torna a gravare sull'amministrazione finanziaria. Si tratta delle presunzioni cosiddette “semplici” (articolo 2729 del Codice civile), fondate su elementi gravi, precisi e concordanti (ci sono anche le presunzioni cosiddette “semplicissime”, ma riguardano casi eclatanti di violazioni, tipo la mancata tenuta delle scritture contabili). In sostanza, per la presunzione semplice, l'inferenza sulla quale la stessa si fonda deve essere provata in giudizio ed il relativo onere grava su colui che intende trarne vantaggio (l'Agenzia), il quale ha, quindi, l'onere di dimostrare che il nesso inferenziale tra fatto noto e fatto ignorato riveste i caratteri di gravità, precisione e concordanza. In pratica, si torna alla regola ordinaria del rapporto tributario, secondo la quale l'onere probatorio dei fatti costitutivi posti a fondamento della pretesa incombe sull'agenzia delle Entrate.
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Dario Deotto