26/10/2020
La cash flow tax prescinde dal reddito e incide solo sui flussi
La proposta riportata su Il Sole 24 Ore del 20 aprile in cui è stata evidenziata la necessità, per le piccole imprese (sostanzialmente ditte individuali e società di persone, forse piccole Srl trasparenti), di un sistema di tassazione basato sugli incassi effettivi e sulle spese realmente sostenute pare sia stata raccolta dal direttore delle Entrate, il quale, in più occasioni, si è detto favorevole all’introduzione in Italia di una cash flow tax.
Tuttavia, occorre premettere che c’è una sostanziale differenza tra l’applicazione del “principio di cassa” alle manifestazioni giuridico-economiche delle aziende e la tassazione attraverso la cash flow tax. Quest’ultima è stata proposta per la prima volta nel Regno Unito da Brown (1948) e alla fine degli anni ’70 dal Comitato Meade.
Dagli studi del professor Meade risultano tre modelli di cash flow tax: R-base, S-base e R+F base. Ad esempio, il primo modello (R-base) è quello che considera la tassazione dei flussi di cassa reali. La base imponibile risulta data dalle entrate derivanti dalle vendite di beni, servizi e asset al netto delle spese per retribuzioni e delle spese per asset materiali e immateriali (che verrebbero spesati immediatamente). Non rilevano le componenti finanziarie: quindi, ad esempio, non viene ammessa nessuna deduzione degli interessi passivi.
Occorre quindi ben intendersi quando si parla di cash flow tax. Quest’ultima considera, nei tre modelli prima riportati, soltanto i flussi di cassa, a prescindere dal “reddito economico”. Tant’è che la cash flow tax non sembra assumere i connotati di un “reddito”, aspetto che risulta fondamentale nell’approccio alla tematica, anche per evidenti problemi di comparabilità nei contesti internazionali.
Occorre quindi capirsi: un conto è riferire al periodo d’imposta le attuali manifestazioni giuridico-economiche in ragione degli incassi effettivi e delle spese effettivamente sostenute (“reddito per cassa”), un’altra è prospettare una tassazione in ragione dei (puri) flussi di cassa. Per intendersi, nel modello più completo di cash flow tax (R+F base) un finanziamento soci rappresenterebbe una manifestazione di ricchezza da tassarsi completamente nell’esercizio in cui viene erogato il finanziamento.
Se, dunque, pare difficilmente ipotizzabile la realizzazione di una cash flow tax italiana, risulta invece più percorribile l’ipotesi di tassare le attuali manifestazioni giuridico-economiche in ragione del semplice principio di cassa. Si tratterebbe, dunque, di riscrivere – ampliandola soggettivamente – l’attuale previsione monstre dell’articolo 66 del Tuir, che ha determinato l’insorgenza di un complicatissimo regime misto cassa/competenza.
Si dovrebbe eliminare, quindi, la rilevanza della competenza economica per le ipotesi espressamente previste, rimuovendo tutte le poste valutative. Si dovrebbero soltanto fare dei ragionamenti, a nostro avviso, sulle vicende economiche (ammortamenti e realizzi) riconducibili agli asset materiali e immateriali.
Certamente, per questi ultimi, l’adozione di un regime di cassa puro rappresenterebbe un forte incentivo agli investimenti, ma questo porterebbe anche ad evidenti storture nella rappresentazione degli imponibili (il pagamento al 30 dicembre di un macchinario, porterebbe alla completa deduzione dello stesso). Così come sarebbe da valutare, sempre a nostro avviso, se mantenere la possibilità di dedurre l’accantonamento di fine rapporto per i lavoratori dipendenti.
In definitiva, una proposta equa potrebbe risultare quella di un “reddito” (per le piccole imprese) determinato, per tutte le poste, positive e negative, effettivamente “per cassa”, tranne che per i cespiti e per l’accantonamento del Tfr.
Ma non si tratta certamente, anche se si volessero spesare interamente i cespiti e il Tfr in ragione della spesa effettiva, di una cash flow tax (tralasciando di commentare l’inopportuna proposta di liquidazioni periodiche mensili o trimestrali dell’imposta).
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Dario Deotto