23/04/2018
Lo stop alle minusvalenze complica il prelievo per i privati
L'Agenzia, nella risposta all’interpello n. 956-39/2018, afferma che alle persone fisiche “private” che detengono criptovalute si applicano – ai fini della tassazione reddituale – le regole riguardanti le valute estere. Si conferma così un breve passaggio (si tratta di due righe del documento) della risoluzione 72/E/2016 delle Entrate.
Il fatto è, però, che l’assimilazione alle valute estere porta ad applicare tutta la disciplina prevista dagli articoli 67 e 68 del Tuir. La norma (in questo caso la lettera c-ter dell’articolo 67) ritiene espressiva di un’attività di investimento, con presunzione assoluta di legge – che non ammette prova contraria – il (semplice) prelievo delle valute estere da depositi e conti correnti.
Tale previsione è in parte attenuata dal successivo comma 1-ter dell’articolo 67, con il quale viene stabilito che le plusvalenze generate dalla cessione a titolo oneroso di valute estere derivanti da depositi e conti correnti concorrono a formare il reddito a condizione che – nel periodo d’imposta in cui esse sono realizzate – la giacenza dei depositi e conti correnti complessivamente intrattenuti dal contribuente presso gli intermediari, calcolata secondo il cambio vigente all’inizio del periodo di riferimento, sia superiore a 51.645,69 euro per almeno 7 giorni lavorativi continui.
Il connubio di queste due previsioni, se applicate alle criptovalute, porta a conseguenze rilevanti.
Infatti, va considerato che è il semplice prelievo dal «deposito o conto corrente» che genera per presunzione assoluta di legge, seppure “edulcorata” dalla previsione del comma 1-ter, materia imponibile, che poi deve essere determinata con le regole del successivo articolo 68 (comma 6 e comma 7, lettera c). Tant’è che la risposta all’interpello afferma la rilevanza reddituale di ogni prelievo considerando l’insieme dei wallet detenuti dal contribuente, per i quali sia stata superata la giacenza media in euro di 51.645,69 per almeno 7 giorni lavorativi. E questo a prescindere dall’intento speculativo, ma anche per il semplice acquisto di un bene (nel caso dell’interpello si trattava dell’oro, ma potrebbe anche trattarsi, per assurdo, di una pizza).
Tutto ciò porta a delle conclusioni davvero irrazionali. Il fatto è che il wallet non può in alcun modo essere considerato «deposito o conto corrente».
L’errore sta però alla base: quello di assimilare le criptovalute alle valute estere. Il concetto di valuta ha sempre un collegamento con uno Stato o un gruppo di Stati, che non necessariamente la emettono, ma la riconoscono legalmente come mezzo di scambio.
Tutto ciò evidentemente non accade per le criptovalute, tant’è che anche la normativa antiriciclaggio interna (Dgls 231/2007) si affranca da una classificazione delle monete virtuali come valute estere, stabilendo che si tratta di rappresentazione di valore «non necessariamente collegata a una valuta avente corso legale».
Così che il trattamento di eventuali plusvalenze derivanti da un loro impiego come strumento di investimento deve seguire altre strade. Una ipotetica è quella di considerare i coin «titoli non rappresentativi di merce» (lettera c-ter dell’articolo 67), tra i quali rientrano, ad esempio, le cambiali finanziarie e i certificati di deposito.
Il fatto è che nel concetto di «titoli non rappresentativi di merce» ricadono tutti quelli che non sono rappresentativi di una partecipazione al capitale o al patrimonio di un ente collettivo, ma occorre comunque che vi sia un emittente del titolo, cosa che non si avvera per le criptovalute.
Così, non potendosi inquadrare eventuali proventi tra i «redditi» di cui alla lettera c-quater dell’articolo 67 – che attiene i contratti derivati o altri contratti a termini di natura finanziaria – la soluzione più plausibile è che eventuali plusvalenze vengano assoggettate a tassazione come redditi diversi in base all’articolo 67, comma 1, lettera c-quinquies del Tuir, posta la funzione di “chiusura” di tale disposizione (circolare 165/E/1998) rispetto alle precedenti lettere c-ter e c-quater. Il problema è che questa conclusione comporta la non rilevanza reddituale di eventuali minusvalenze.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Dario Deotto
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