30/09/2019
Operazioni riqualificate dal Fisco: non c’è un potere generalizzato
Secondo la Corte di cassazione (ordinanza 23549 del 23 settembre scorso), non solo nell’imposta di registro, ma nella «fiscalità nella sua interezza e nei suoi risvolti tanto nazionali quanto sovranazionali, quello di prevalenza della sostanza sulla forma è principio imprescindibile ed anche storicamente radicato». Il principio di prevalenza della sostanza sulla forma deriverebbe praticamente, secondo la Cassazione, dal principio di capacità contributiva.
La domanda che si impone è quindi: è proprio così, in Italia esiste davvero un generale principio di prevalenza della sostanza sulla forma e questo principio deriva direttamente dal principio di capacità contributiva?
Va ricordato che in più occasioni la Cassazione ha stabilito la diretta applicabilità del principio di capacità contributiva nei rapporti tra Stato e contribuente, senza la necessità di un intervento diretto del legislatore. Vanno ricordate, a questo proposito, le sentenze a Sezioni unite del 2008 (la 30055, la 30056 e la 30057) con le quali è stato fatto derivare il divieto dell’abuso del diritto direttamente dal principio di capacità contributiva. E proprio l’abuso del diritto risulterebbe l’ambito applicativo più fertile al quale applicare il principio di prevalenza della sostanza sulla forma.
Il rischio di un ritorno al passato
Si consideri la risposta delle Entrate all’interpello 341/2019 (si veda Il Sole 24 Ore del 24 agosto), attraverso la quale è stata ritenuta elusiva una sequenza negoziale complessa riguardante la sistemazione dei rapporti tra soci di prima e seconda generazione. Secondo l’Agenzia, lo stesso risultato economico poteva essere raggiunto mediante il recesso tipico (da parte dei genitori), considerato che «il disegno prospettato comporta un numero superfluo di negozi giuridici, il cui perfezionamento non è coerente con le normali logiche di mercato».
L’Agenzia compie quindi un apprezzamento soltanto sul piano economico. Come se l’assetto giuridico realizzato risultasse assolutamente irrilevante e dovessero prevalere in ogni caso gli effetti economici delle operazioni effettuate. Così che, in linea con quanto stabilito in numerose sentenze dalla Cassazione, l’Agenzia avrebbe un potere di riqualificazione dei contratti individuando la causa concreta degli stessi e del collegamento negoziale.
Tutto questo porterebbe, evidentemente, a serie ripercussioni per i contribuenti. Si tornerebbe indietro di un secolo, quando si affermava che se il contribuente sceglieva percorsi tortuosi occorreva valorizzare soltanto i presupposti economici (Scuola di Pavia e dottrina tedesca di quegli anni).
A livello pratico, si corre il rischio di mettere a repentaglio operazioni oramai tranquillamente praticate come la scissione parziale e il successivo trasferimento delle partecipazioni della scissa o della beneficiaria, ma anche il banale trasferimento totalitario delle partecipazioni in luogo della cessione diretta dell’azienda.
Non può essere così. Innanzitutto perché oggi esiste il riconoscimento del legittimo risparmio d’imposta, in base al quale il contribuente può scegliere tra più forme giuridiche quella fiscalmente meno onerosa. Inoltre, va considerato che il principio di capacità contributiva è rivolto al legislatore e, quindi, non può essere direttamente applicato.
Le norme di dettaglio
In effetti, nell’ordinamento tributario italiano non si rinviene una previsione normativa che stabilisca – come principio generale – la rilevanza fiscale degli effetti economici dei negozi giuridici o, comunque, una sorta di supremazia della sostanza economica sull’assetto del rapporto giuridico.
Vi sono soltanto delle specifiche disposizioni, peraltro indirette – ad esempio talune operanti nella fiscalità d’impresa – come il principio di derivazione del reddito d’impresa dal risultato del bilancio, per le quali si può affermare la supremazia della sostanza sulla forma. Ma si tratta di eccezioni che, come tali, non possono affatto determinare una generalizzata supremazia fiscale degli effetti economici sulla forma delle operazioni poste in essere.
In definitiva, l’effetto economico ha certamente rilevanza nel contesto suo proprio, cioè quello dell’economia, ma è assolutamente irrilevante sul piano tributario, a meno che la norma tributaria non lo disponga espressamente.
Con la conseguenza che il Fisco non può identificare presunti effetti economici ulteriori rispetto a quelli giuridici. Può certamente riqualificare il contratto o le sequenze negoziali nelle ipotesi di macchinazione fraudolenta, di contratti simulati, cioè di evasione, ma non quando l’assetto negoziale dell’operazione corrisponde alla volontà delle parti e viene trasfuso nel corrispondente tipo normativo.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Pagina a cura di
Dario Deotto
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