04/03/2020
Per la Cassazione gli interessi dei soggetti Ires sono sempre deducibili (ma non è una buona notizia)
Gli interessi passivi sfuggono – per i soggetti passivi Ires – a qualsiasi sindacato di inerenza. Lo ha stabilito la Corte di Cassazione, con ordinanza 5332 del 27 febbraio 2020. A prima vista, parrebbe una buona notizia (certamente per il contribuente coinvolto). In realtà non lo è (per il diritto tributario in genere, e per la stessa giustizia tributaria).
La vicenda
Da anni si sostiene che l’articolo 109, comma 5, del Tuir non è la fonte dell’inerenza. La norma stabilisce che i componenti negativi, diversi dagli interessi passivi, sono deducibili se e nella misura in cui si riferiscono a beni o attività da cui derivano ricavi e proventi imponibili ed esclusi. Il che, da una lettura “indiretta”, vuole significare che i componenti negativi che si riferiscono a proventi esenti risultano indeducibili. La conferma viene dal secondo periodo dello stesso comma 5, il quale esordisce dicendo “se si riferiscono”. E’ chiaro che tale previsione non può che essere rivolta ai componenti negativi richiamati dal primo periodo, per cui il secondo periodo vuole stabilire che i componenti negativi – diversi dagli interessi passivi - quando si riferiscono indistintamente a beni o attività da cui derivano sia componenti positivi di reddito imponibili ed esclusi che esenti, risultano deducibili secondo il cosiddetto “pro-rata” specificatamente disciplinato.
In definitiva, i due periodi dell’articolo 109, comma 5, del Tuir si occupano dell’aspetto legato alla riferibilità dei componenti negativi ai proventi imponibili, esclusi ed esenti. Lo scopo della disposizione citata risulta, in particolare, quello di evitare che componenti negativi che si riferiscono a proventi esenti possano essere portati in deduzione.
Si è anche più volte riportato sulle pagine de Il Sole 24 Ore – in accordo con buona parte della dottrina – che il principio dell’inerenza nella determinazione del reddito d’impresa opera, invece, su un livello “preventivo” generale e più alto rispetto alle singole disposizioni del Tuir, essendo volto a cogliere se si realizza quel necessario collegamento, anche in via prospettica, tra il componente economico e l’attività dell’imprenditore. Si tratta di un giudizio, in definitiva, circa la connessione tra un componente di reddito e l’attività esercitata, o da esercitarsi in via prospettica da parte dell’imprenditore. Questo giudizio, evidentemente, deve riguardare sia poste positive che negative di reddito, anche se le maggiori problematiche riguardano i componenti negativi.
Una volta individuate quelle che sono le poste inerenti, queste devono poi essere valorizzate secondo la visione fiscale delle singole norme del Tuir. L’inerenza, in definitiva, rappresenta una sorta di pre-requisito generale, in base al quale devono essere fatti confluire nella determinazione del reddito d’impresa solamente quei componenti economici che hanno un collegamento con l’attività esercitata da parte dell’imprenditore. Trattandosi di una clausola generale preventiva – si dice che l’inerenza rappresenta un principio immanente nella determinazione del reddito d’impresa – non vi è, nella determinazione del reddito d’impresa dei soggetti Ires, una espressa disciplina positiva nell’ambito delle varie disposizioni del Tuir.
La Cassazione
Queste conclusioni sono state finalmente “recepite” dalla Corte di Cassazione, dall’ordinanza n. 450 del 2018 in poi, la quale ha sostanzialmente ammesso l’erroneità delle tesi espresse in passato dalla stessa Corte, che impropriamente aveva individuato la fonte dell’inerenza nella previsione dell’articolo 109, comma 5, del Tuir.
La questione non è solo teorica, ma determina notevoli implicazioni pratiche, non soltanto legate al concetto di inerenza in sé. Il fatto, ad esempio, che l’articolo 109, comma 5 cita «se e nella misura» ha fatto sì che si dovessero abbandonare le precedenti tesi che, errando nell’individuare la norma dell’articolo 109 come fonte dell’inerenza, ammettevano l’inerenza anche come vicenda quantitativa, e le conseguenti rettifiche fondate sull’antieconomicità. Ora la Cassazione ammette, invece, che «l’antieconomicità è semplicemente un indice di non inerenza, pur non identificandosi con essa», essendo – chiaramente – l’inerenza una vicenda di tipo qualitativo.
Sono innumerevoli le pronunce della Cassazione che si sono adeguate all’ordinanza 450/2018. Se ne contano almeno una ventina (dalla 3170/2018 alla 18904, sempre del 2018 - più specificatamente dedicata al tema della prova - fino ad andare all’ultima del 2019, la n. 33964).
Ora giunge l’ordinanza n. 5332 del 27 febbraio scorso, nella quale si stabilisce che dalla previsione dell’articolo 109, comma 5, del Tuir (all’epoca dei fatti articolo 75, comma 5, Dpr 597/1973) «emerge chiara la volontà legislativa di riconoscere un trattamento differenziato per gli interessi passivi rispetto ai vari componenti negativi del reddito d’impresa, nel senso che il diritto alla deducibilità degli interessi è riconosciuto sempre, senza alcun giudizio sulla inerenza».
Questo perché l’articolo 109, comma 5, del Tuir – come prima riportato - non si applica agli interessi passivi (come il precedente articolo 75, comma 5, Dpr 597/1973) in quanto per quest’ultimi operano già le precedenti norme sull’indeducibilità (articolo 96 Tuir, in passato anche articoli 97 e 98). In sostanza, la Corte legge ancora l’articolo 109, comma 5, Tuir come fonte dell’inerenza ed esclude ogni sindacato di inerenza per gli interessi passivi dei soggetti Ires, come aveva fatto in alcune occasioni prima dell’ordinanza n. 450/2018. Come a dire: non c’è migliore (strumentale?) incertezza che nel diritto tributario.
Dario Deotto
Dario Deotto